Quando Mary Wollstonecraft Godwin Shelley e Percy Bysshe Shelley – con i piccoli figli William e Clara Everina – giungono a Livorno, il 9 maggio 1818, (erano entrati in Italia il 30 marzo, trascorrendo poi un mese a Milano), il Frankenstein della giovanissima scrittrice, non ancora ventunenne (era nata il 30 agosto 1797), è stato appena pubblicato – a Londra – nella sua prima versione, in forma anonima, l’11 marzo, e la notorietà del porto toscano, in terra d’Albione, è tale da aver indotto la Godwin a sceglierlo – pur senza averlo ancora visitato – come una tra le ambientazioni del capitolo VI (che diventerà il XIV nella versione finale del 1831), dedicato al racconto della storia d’amore tra i personaggi di Felix e Safie.
“This town is a noisy mercantile one and we intend soon to quit it”¹ scriverà tuttavia Mary pochi giorni dopo l’arrivo all’Hotel de l’Aigle Noir, nel seicentesco Palazzo Ginori, in Via del Porticciolo, dal quale i coniugi Shelley presto si sposteranno all’Hotel Croce di Malta, al civico 45 di Via Ferdinanda (l’attuale Via Grande), prima del trasferimento a Bagni di Lucca, l’11 giugno.
A trattenere in città, per oltre un mese, la coppia, è la presenza degli intimi amici Maria e John Gisborne, che vivono nella pittoresca campagna poco fuori dalla cinta muraria (in un fabbricato oggi andato distrutto ma collocabile all’altezza del civico 59 dell’attuale viale Guglielmo Marconi); e saranno proprio quell’amicizia e quella rigogliosa natura a rivelarsi salvifiche per Mary e soprattutto per Percy l’anno seguente, quando gli Shelley, in fuga da Roma dopo la morte per malaria del figlio William (che seguiva la perdita della piccola Clara, avvenuta il 24 settembre a Venezia) e diretti alla volta di Firenze, sostando nuovamente dal 17 giugno all’Hotel de l’Aigle Noir decidono di modificare i loro progetti e prolungare la permanenza in città, trasferendosi, a partire dal giorno 23, vicino agli amici, in una dimora circondata da un podere in via Valsovano (oggi via del Fagiano, ma alla quale si accede da via Filippo Venuti), dove trascorreranno infine l’intera estate, fino al 30 settembre.
Mary, che nel giro di un anno ha visto morire entrambi i piccoli figli, vive quei mesi in bilico tra l’angoscia e il dolore, leniti appena dalla nuova gravidanza (dalla quale nascerà a Firenze, il 12 novembre, il figlio Percy Florence), cercando distrazione nei suoni della campagna – come si apprende da una lettera a Marianne Hunt del 28 agosto² – e nella scrittura che la porta a dar forma, dal 4 agosto al 14 settembre, al romanzo Matilda che, per la scabrosa tematica (ovvero l’amore incestuoso tra padre e figlia), troverà le stampe soltanto nel 1959.
Ricorderà Mary, anni più tardi:
“La nostra villa era situata in mezzo a un podere; i contadini cantavano mentre lavoravano sotto le nostre finestre, durante gli ardori di una stagione caldissima, e di sera la ruota idraulica scricchiolava mentre l’irrigazione procedeva, e le lucciole scintillavano tra le siepi di mirto: – la natura era luminosa, soleggiata e allegra, o variata da temporali di un terrore maestoso, come non ne avevamo mai visti prima.
In cima alla casa vi era una sorta di terrazza. Se ne trovano spesso in Italia, generalmente coperte. Questa era molto piccola, e non solo coperta, ma anche vetrata; Shelley ne fece il suo studio. Si affacciava su un’ampia prospettiva di fertile campagna, e dominava la vista del mare vicino. I temporali che a volte variavano la nostra giornata apparivano sommamente pittoreschi quando venivano spinti attraverso l’oceano; a volte le nuvole scure e spaventose scendevano verso le onde, e diventavano trombe marine, che agitavano le acque sottostanti, mentre venivano inseguite e disperse dalla tempesta. Altre volte la luce abbagliante del sole e il calore rendevano [la terrazza] quasi intollerabile a chiunque altro, ma [Percy] Shelley si crogiolava in entrambi, e la sua salute e il suo spirito si rianimavano sotto la loro influenza. In questa cella ariosa scrisse la maggior parte dei Cenci”³.
Effettivamente, la quiete e lo splendore della campagna livornese costituirono per Percy Shelley il rifugio ideale per “recuperare le facoltà di lettura e scrittura” – come riferisce il poeta stesso già il 6 luglio⁴ – e, affascinato dal “grazioso scenario verdeggiante” e dal panorama del quale godeva dal suo studio potendo ammirare “il mare con le sue isole, Gorgona, Capraia, Elba e Corsica, da una parte, e gli Appennini dall’altra”, trovare quella rinnovata ispirazione che lo condurrà a concludere il celeberrimo Prometheus Unbound e comporre buona parte dell’altrettanto fortunata tragedia The Cenci, di cui Shelley fece stampare proprio a Livorno le prime duecentocinquanta copie da spedire a Londra.
Trasferitisi a Firenze e quindi, sul finire del gennaio 1820, a Pisa, gli Shelley saranno a Livorno, nuovamente, per quello che è l’ultimo soggiorno di Mary – ma non di Percy – in città, dal 15 giugno al 5 agosto, nella casa lasciata temporaneamente libera degli amici Maria e John Gisborne, e dove Percy conclude Ode to Liberty, per celebrare la rivoluzione liberale spagnola del gennaio di quell’anno, e soprattutto la celeberrima ode To a Skylark, come ricorderà Mary – seppur sbagliando tempi e date – anni più tardi:
“In primavera passammo una o due settimane vicino Livorno, prendendo in prestito la casa di alcuni amici, che erano assenti per un viaggio in Inghilterra. – Fu in una splendida sera d’estate, mentre passeggiavamo per sentieri fiancheggiati da siepi di mirto, rifugio delle lucciole, che udimmo il canto dell’allodola che gli ispirò una delle sue poesie più belle”⁵.
Poco prima, il 3 aprile 1820, come annotato da Mary nel suo diario, questa aveva invece terminato di scrivere i suoi due drammi in versi: Proserpina, che sarà poi pubblicato nel 1832, e Mida, dato alle stampe addirittura nel 1922, un secolo dopo la sua stesura, mentre il romanzo Valperga, Vita e avventure di Castruccio, principe di Lucca, iniziato nel 1818, nella primavera del 1820 è ancora in gestazione.
A due anni di distanza da questo felice soggiorno, Percy tornerà a Livorno il primo luglio 1822, ospite per una settimana dell’amico e poeta George Gordon Byron nella sua temporanea residenza di villa delle Rose, a Montenero, per discutere la possibilità di dar vita ad una rivista radicale che avrebbe dovuto chiamarsi The Liberal. Ed è proprio a Livorno che Shelley trascorrerà i suoi ultimi giorni di vita, trovando la morte l’8 luglio durante il viaggio di ritorno via mare alla volta della sua residenza ligure di villa Magni, a Lerici. Dopo il ritrovamento del corpo del poeta sulla spiaggia di Viareggio, le autorità negheranno la richiesta di Mary e della famiglia di Shelley di poterne ottenere sepoltura nel cimitero inglese di Livorno e così, dopo l’improvvisata cremazione con rito ellenico sulla spiaggia di Viareggio, voluta da Byron e Mary, le sue ceneri si ricongiungeranno a quelle del figlio William presso il Cimitero acattolico di Roma.
Andata da tempo distrutta la casa dei Gisborne, dove gli Shelley trascorsero il loro terzo soggiorno livornese, villa Valsovano è invece sopravvissuta alle speculazioni edilizie del secondo dopoguerra che ne hanno tuttavia lottizzato le proprietà ed oggi il suo profilo resta soffocato insieme alla sua storia dall’ombra di grigi palazzi in cemento armato che incombono su di essa nascondendola alla vista e cancellando, per sempre, il meraviglioso panorama che dalla torre ispirò a Shelley alcuni tra i suoi versi più celebri.
Al poeta, infine, è dedicata una via nella frazione di Quercianella mentre a Mary ed al Frankestein (che pure, come si è detto, è stato scritto e pubblicato nella sua prima versione precedentemente all’arrivo dei coniugi in città), il murale dell’artista D*Face, in via Bosi, appena inaugurato.
¹ The Letters of Mary Shelley, Boston 1918, vol. I, p. 67.
² Ibidem, pp. 102-103.
³ M. Shelley, Note on The Cenci. By the Editor, in The Poetical Works of Percy Bysshe Shelley, Londra 1839, pp. 258-259.
⁴ Lettera di Percy a Thomas Love Peacock, 6 luglio 1819, in The Letters of Percy Bysshe Shelley, Londra 1912, pp. 99-100.
⁵ M. Shelley, Note on the Poems of 1820, in The Poetical Works…, cit., p. 278.