di Lucilla Serchi e Giuseppe Di Palma
Esiste una nuova forma di bullismo, quella digitale, chiamata cyberbullismo, su cui negli ultimi anni si sono concentrati i media e le istituzioni. Ma il bullismo “tradizionale”, fatto di piccoli o grandi soprusi, insulti, esclusioni e violenze psicologiche, non è affatto scomparso. Continua a colpire a scuola e negli spazi di socializzazione, spesso sotto gli occhi di tutti. Per questo, tenere alta l’attenzione resta fondamentale.
Dalla “normalità” della violenza alla consapevolezza
Fino a pochi decenni fa il bullismo era considerato quasi una fase inevitabile della crescita, un passaggio da affrontare scegliendo, più o meno inconsapevolmente, se essere vittima o carnefice. In molti casi, chi subiva finiva per ripetere le stesse prepotenze su altri, alimentando un ciclo di violenza.
Come accade oggi alle vittime di altri tipi di abusi, anche i ragazzi bullizzati venivano spesso colpevolizzati o ignorati. Temevano di non essere creduti, anche in famiglia, e preferivano tacere. La mancanza di ascolto e la tendenza a minimizzare il problema o a etichettarlo come una cosa normale, da parte di insegnanti e genitori, contribuivano a un clima di omertà.
A rompere per la prima volta questo silenzio furono gli studi pionieristici di Ada Fonzi nel 1995, che mostrarono come il fenomeno fosse già allora molto diffuso: fino al 41% dei bambini nella scuola primaria e al 26% degli studenti delle medie dichiaravano di essere stati vittime di aggressioni tra coetanei.
Numeri che fanno riflettere
Secondo l’ultimo monitoraggio Elisa del Ministero dell’Istruzione, il 25,3% degli studenti delle scuole superiori dichiara di essere stato vittima di bullismo. Sono numeri ancora troppo alti. Le forme più diffuse sono quelle verbali, psicologiche e fisiche, che avvengono soprattutto in contesti scolastici. L’UNICEF e molte fondazioni internazionali hanno documentato l’impatto devastante di questi comportamenti sulla salute mentale dei ragazzi.
Le conseguenze sono profonde: problemi di autostima, isolamento, disturbi alimentari, ansia, depressione e, nei casi più gravi, gesti estremi.
Quando il bullismo uccide
Con il tempo, l’opinione pubblica ha iniziato a prendere coscienza del problema, soprattutto in seguito a episodi drammatici.
In ambito militare, il cosiddetto “nonnismo” – il nome che viene dato al bullismo nelle caserme – è costato la vita a Emanuele Scieri, ventiseienne paracadutista morto nel 1999 dopo pesanti atti di prevaricazione.
Nelle scuole, uno dei casi più noti è quello di Andrea Spezzacatena, soprannominato “il ragazzo dai pantaloni rosa”: a soli 15 anni, vittima di derisioni e umiliazioni per il suo modo di vestire, si tolse la vita. La sua storia ha ispirato anche un bel film uscito nel 2024.
Più recente è la tragedia di Paolo Mendico, 14 anni, che si è suicidato dopo ripetuti episodi di bullismo purtroppo a quanto pare sottovalutati dall’ambiente scolastico.
Episodi diversi, ma accomunati da un messaggio preciso: il bullismo continua a uccidere, e non è un problema del passato.
Esperienze dirette
Nella mia esperienza da insegnante ho assistito a un solo caso di bullismo davvero grave, circa vent’anni fa, quando di questo problema si parlava ancora poco.
In classe avevo un ragazzo sensibile e intelligente, di una bellezza quasi femminile. Non furono i suoi compagni a prenderlo di mira, ma alcuni ragazzi più grandi, che lo umiliavano con insulti degradanti e, un giorno, mentre tornava a casa in bicicletta, lo fecero cadere lasciandolo a terra, ferito e in lacrime. Dopo quell’episodio, lo studente lasciò la scuola e anche Livorno.
Oggi noto che il bullismo nelle scuole superiori sembra aver cambiato forma: è meno visibile, ma non per questo meno doloroso. Serpeggia in silenzio, fatto di esclusioni e indifferenza. Si manifesta con l’emarginazione costante da incontri, feste o semplici “pizzate” del gruppo; con l’assenza di sostegno durante le lezioni o le prove in classe.
Sono gesti apparentemente meno violenti, ma per chi li subisce hanno un impatto profondo: il ragazzo o la ragazza esclusi diventano insicuri, silenziosi, e spesso vedono peggiorare il proprio rendimento scolastico, costretti a confrontarsi ogni giorno con compagni indifferenti o sprezzanti.
Negli istituti livornesi non mancano però i tentativi di risposta: negli ultimi anni sono state organizzate diverse attività di prevenzione, soprattutto nella scuola media inferiore, dove il bullismo si manifesta più spesso con violenza verbale e comportamenti aggressivi.
Il CRED (Centro Risorse Educative e Didattiche) coordina gran parte delle iniziative locali per contrastare questo fenomeno, promuovendo progetti educativi e incontri di sensibilizzazione. Parleremo delle lodevoli iniziative del CRED in un prossimo articolo.
KiVa, il modello finlandese che educa al rispetto
Uno dei progetti più efficaci a livello internazionale è KiVa, nato in Finlandia e oggi diffuso anche in Italia. Non è un sistema punitivo, ma un percorso educativo che punta a prevenire il bullismo coinvolgendo l’intera comunità scolastica.
La novità di KiVa è l’attenzione agli “spettatori”, cioè i compagni che assistono senza intervenire. Attraverso lezioni, giochi di ruolo e attività interattive, il programma insegna empatia, collaborazione e sostegno alle vittime.
Il progetto coinvolge anche genitori e insegnanti, fornendo strumenti per riconoscere e gestire i segnali di disagio. I risultati? Nelle scuole dove è stato introdotto, gli episodi di bullismo si sono ridotti fino alla metà, migliorando il clima relazionale e la motivazione allo studio.
MaBasta: la risposta italiana nata dagli studenti
In Italia, un’esperienza di grande valore è quella di MaBasta – Movimento Anti Bullismo Animato da Studenti Adolescenti – nato a Lecce nel 2016 da un gruppo di quattordicenni colpiti dal suicidio di una coetanea.
Il progetto ha ricevuto il sostegno di istituzioni e personaggi pubblici, fino al Presidente Mattarella, e si basa su una semplice ma potente idea: rendere gli studenti protagonisti del cambiamento.
Con il “Modello MaBasta”, le scuole possono attivare sei azioni concrete per prevenire e contrastare il bullismo. Tra il 2018 e il 2021 il programma ha coinvolto decine di scuole, raggiungendo oltre 80.000 studenti in tutta Italia.
I risultati mostrano un clima scolastico più sereno e consapevole, con una comunità educativa più pronta a riconoscere e bloccare i comportamenti violenti.
Uno sguardo al futuro
Il bullismo, in tutte le sue forme, non è un fenomeno risolto. I danni psicologici possono durare anni e lasciare cicatrici invisibili. I progetti educativi come KiVa e MaBasta dimostrano che cambiare è possibile: la prevenzione funziona quando coinvolge tutti: studenti, insegnanti, genitori e istituzioni.
Fortunatamente il problema non è sottovalutato, a livello istituzionale locale: bene. Ma manteniamo alta l’attenzione. Serve continuare su questa strada, senza minimizzare, senza voltarsi dall’altra parte, senza considerarlo un fenomeno marginale ma inevitabile. Solo così il bullismo potrà davvero smettere di essere una palestra di crudeltà e diventare un’occasione di crescita collettiva.