di Gianni Schiavon, 10 nov 2025
Del pericolo di “una squallida espansione disordinata della città moderna”, scriveva nel 1954 l’Ingegnere Giorgio Amati (1920 – 1977)¹, direttore dell’Ufficio municipale di Urbanistica del Comune di Livorno, preposto, tra l’altro, all’elaborazione e la stesura di quel Piano Regolatore Generale dell’attività edilizia all’interno del comprensorio comunale, che sarebbe stato approvato due anni più tardi, redatto dallo stesso Amati in collaborazione con gli Architetti Edoardo Detti, Lando Bartoli, Ghino Venturi e Giorgio Gianfranceschi².
Le osservazioni contenute nell’articolo, unite alle riflessioni dell’anno precedente circa le esigenze di risanamento del centro cittadino³, avrebbero tentato di trovare espressione nelle indicazioni su zonizzazione e utilizzo del territorio contenute nel Piano Regolatore, al fine di arginare quel temuto sviluppo edilizio incontrollato, caratteristico della grandissima maggioranza delle città italiane a partire dal secondo dopoguerra, ma ancora distante, in quelle date, dal manifestarsi nella città di Livorno.
Per quanto sorprendente, in una città martoriata dagli eventi bellici ed in piena emergenza abitativa, il principio degli anni Cinquanta vede infatti un coerente e coraggioso tentativo di riallacciare l’attività edilizia pubblica agli interventi urbanistici e architettonici commissionati a Ghino Venturi nel 1934 dall’Istituto Case Popolari per la realizzazione – che avverrà nei tre anni seguenti – dei quartieri di Barriera Garibaldi e Stazione (nell’area di via Pannocchia).
L’edificazione, a partire dal 1951, nelle vaste aree a nord ovest della città, tra via Pisana e via delle Sorgenti, e poco dopo, più a sud, in quelle dette di Colline e di Coteto, di isole residenziali omogenee negli spazi e nell’architettura (firmate – tra gli altri – da Pietro Barucci, Beata Barucci di Gaddo e Rossi de Paoli), testimoniano, infatti, “lo sforzo di creare un ambiente architettonico, un insieme di edifici uniti in una composizione armonica; spazi raccolti e commisurati ai volumi, sistemazioni dissimmetriche, movimentate ed articolate, corpi di fabbrica di forme e di dimensioni fra le più varie, rispetto e valorizzazione delle visuali panoramiche e delle zone alberata, studio del colore”⁴, che risultano ben lontane dagli scenari paventati da Amati; esiti che, per contro e paradossalmente, saranno invece frutto proprio delle indicazioni edilizie contenute all’interno del suo Piano Regolatore. La scelta di optare, nella totalità delle zone individuate (eccetto per le cosiddette “agricola” e “panoramica”), per la soluzione dell’edificio isolato, arretrato dal filo stradale – piuttosto che per la fabbricazione continua che aveva caratterizzato la città prebellica – e con altezze consentite finanche a 41 metri, anche se più sovente di 28, secondo la tipologia della torre residenziale, condurrà ai mediocri e a tratti disastrosi esiti che segnano ancor oggi irrimediabilmente il tessuto urbano della nostra città.
A partire dallo spropositato consumo di suolo (sensibilmente superiore a quello delle costruzioni a filo strada, non casualmente adottate, al tempo, nelle grandi metropoli come Milano, Torino, Roma e Napoli) dovuto al proliferare di edifici distanti tra loro nello spazio – ma scollegati anche architettonicamente e visivamente –, in particolare quando insistenti su aree precedentemente non urbanizzate; o peggio ancora ove inseriti all’interno di isolati preesistenti e già caratterizzati per tipologia edilizia, epoca e stile, andando sistematicamente a creare emergenze di volumi e fratture col tessuto circostante.
Nessuna zona della città risulterà esente dalle conseguenze di questa sciagurata scelta; dal centro storico (basti pensare alla Venezia, ai mastodontici fabbricati in angolo tra Scali del Pesce e via della Madonna, o al viale Carducci, con lo smisurato edificio detto un tempo delle Imposte Dirette, collocato davanti al Cisternone) fino alla parte ottocentesca e più elegante del lungomare (con l’edificio a doppia torre collocato sul fianco nord dell’Hotel Palazzo), mentre un proliferare disordinato di fabbricati residenziali andrà ad inserirsi nelle aree libere, quasi a saturare ogni lotto disponibile, anche internamente agli isolati definiti dalle strade, e non di rado letteralmente a sostituirsi agli edifici d’epoca preesistenti (come nel caso, peraltro, dei tre esempi sopra nominati) procedendo a vere e proprie demolizioni finalizzate a sfruttare gli aumentati indici di edificabilità, con all’abbattimento finanche di ville storiche, come la villa Attias e la villa Regina e la lottizzazione dei rispettivi parchi.
Non casualmente, allora, di “Arte delle strade” aveva correttamente e acutamente scritto, già nel 1908, Ugo Ojetti (1871 – 1946)⁵, critico dell’arte, letterato e giornalista, legato peraltro a Livorno sin dal 1894 quando era giunto in città per intervistare Giovanni Pascoli e Giovanni Marradi, e successivamente unito da sincera amicizia a gran parte dei principali artisti livornesi; da Oscar Ghiglia a Mario Puccini, da Plinio Nomellini a Llewelyn Lloyd, sino a Gino Romiti e Renato Natali.
Esattamente mezzo secolo prima dell’approvazione del Piano Regolatore livornese, Ojetti aveva infatti profeticamente sottolineato il rischio della perdita dell’identità architettonica, urbanistica, estetica e storica delle città, assediate da corone periferiche sempre più anonime e simili tra loro, del tutto aliene al tessuto originario; tuonato contro l’emergente categoria professionale degli Ingegneri edili e contro la sempre piu diffusa strategia dello “sventramento” dei centri storici – una sterile “cannonata” sul tessuto urbano, l’aveva definita –; contro la strada svuotata dalla sua funzione di spazio pubblico e del piccolo commercio, ma soprattutto aveva brillantemente intuito la “ratio” della nuova urbanistica moderna, identificabile nella rendita fondiaria, con le nuove espansioni e le nuove strade volte a creare una ricchezza temporanea, il cosiddetto plusvalore, ovvero la differenza istantanea di valore tra il terreno non edificabile e quello assunto dopo la sua conversione, profetizzando, per questo, l’urbanizzazione selvaggia, incontrollata e incontrollabile, imperniata sulla mera speculazione edilizia che avrebbe colpito ogni città italiana, e non meno, al di là degli iniziali buoni presupposti, anche Livorno.
¹ G. Amati, Problemi del Piano regolatore di Livorno. Panorama urbanistico della città, in “Rivista di Livorno”, II, 1954.
² Si veda Piano Regolatore Generale del Comune di Livorno, approvato con Delibere del Consiglio comunale del 13 e 17 marzo 1956, adottato con delibere n. 61141 del 19 luglio 1958 e n. 61442 del 21 luglio 1958, definitivamente approvato con Decreto del Presidente della Repubblica in data 25 agosto 1961 e registrazione alla Corte dei Conti il 31 gennaio 1962, Registro n. 6 LL.PP., foglio n. 249.
³ G. Amati, Problemi del Piano regolatore di Livorno: il risanamento cittadino, in “Rivista di Livorno”, IV, 1953.
⁴ R. Uccelli, L’Istituto autonomo per le case popolari, in “Rivista di Livorno”, III, 1953.
⁵ U. Ojetti, Il Pregiudizio del Rettifilo e l’Arte delle Strade, Venezia 1908.