Affacciato sul Fosso Reale, tra i palazzi che raccontano il volto più elegante e stratificato di Livorno, Palazzo Maurogordato è da sempre uno di quei luoghi che fanno parte del nostro paesaggio interiore, prima ancora che urbano. Le sue finestre che si specchiano sull’acqua, le cornici ottocentesche, le linee sobrie e maestose: ogni dettaglio parla di una città che, nei secoli, ha saputo unire apertura e bellezza, commercio e cultura.
C’è un filo sottile che unisce la storia di Palazzo Maurogordato a quella di Livorno: un filo fatto di intrecci, di incontri e di memorie collettive. L’edificio, progettato tra il 1856 e il 1864 dall’architetto Cappellini per la famiglia greca dei Maurogordato – originaria dell’isola di Chio – racconta di un’epoca in cui la città era davvero porto aperto sul Mediterraneo, crocevia di comunità e culture.
La presenza greca, in particolare, ha lasciato segni profondi nel paesaggio urbano e nella memoria livornese: il cimitero greco-ortodosso e la chiesa dei Greci Uniti sono testimonianze ancora vive di quella stagione di cosmopolitismo e tolleranza che ha contribuito a forgiare l’identità della città.
Dopo la vendita della famiglia nel 1921, Palazzo Maurogordato divenne sede di società elettriche e poi, fino al 2010 circa, della direzione provinciale dell’Enel. Era, insomma, un luogo che – pur appartenendo formalmente a privati – svolgeva un ruolo pubblico, collettivo, quasi civico. Nel 2006 entrò a far parte del fondo immobiliare “Risparmio Immobiliare Uno Energia”, gestito da Castello SGR S.p.A. Intorno al 2015 alcune famiglie in difficoltà occuparono l’edificio: una ferita sociale che raccontava, a suo modo, un’altra Livorno. Lo sgombero pacifico arrivò nel 2024, su ordine dell’autorità giudiziaria, a ridosso delle elezioni amministrative.
Oggi, il palazzo è passato nelle mani di una società privata, la Livor srl, che ha in programma la realizzazione di appartamenti di pregio. Tutto regolare, tutto legittimo. Eppure, dietro l’apparente normalità di una transazione immobiliare, si nasconde un interrogativo che riguarda il futuro stesso della città: quanto spazio resta al patrimonio pubblico nella Livorno che verrà?
La prelazione del Ministero dei Beni Culturali – prevista ma non esercitata – avrebbe potuto cambiare il corso delle cose, restituendo all’edificio una funzione pubblica, culturale o sociale. Il fatto che Palazzo Maurogordato fosse un’ex sede Enel, dunque già in uso pubblico o semi-pubblico, rende questa occasione mancata ancora più significativa.
Perché in luoghi come questo non si misura solo il valore immobiliare, ma quello simbolico. È il valore della memoria, dell’identità civica, della possibilità di continuare a pensare Livorno come una città aperta, dove il patrimonio non è solo da vendere o restaurare, ma da condividere.
Palazzo Maurogordato poteva essere un pezzo di futuro collettivo. È diventato invece il simbolo di una domanda che rimane sospesa: quale spazio, oggi, vogliamo riservare a ciò che è davvero di tutti?
In altre città, realtà simili hanno scelto strade diverse. Pisa, ad esempio, ha saputo trasformare Palazzo Blu in un polo culturale d’eccellenza, oggi sede di mostre di rilievo nazionale e internazionale. In questi mesi ospita l’esposizione La Belle Époque, che attira migliaia di visitatori e porta con sé un indotto economico e turistico significativo. Un esempio concreto di come un edificio storico, recuperato e gestito con una visione pubblica e culturale, possa diventare un motore di sviluppo e di identità cittadina.
A Livorno, invece, si è scelta la via più semplice: lasciar fare al mercato.
Non è questione di romanticismo o di sterile nostalgia. È piuttosto una domanda sulla visione pubblica di cui la città oggi sembra priva. Possibile che nessuna istituzione abbia ritenuto opportuno tentare un’acquisizione, o almeno un partenariato che garantisse una funzione collettiva al palazzo? Possibile che la città non disponga di strumenti, o di volontà, per salvaguardare il proprio patrimonio architettonico e farne motore di identità e cultura?
Livorno, negli ultimi anni, ha conosciuto un rinnovato interesse immobiliare, specie nelle aree del centro storico e del fronte d’acqua. In sé non è un male: ogni città viva ha bisogno di investimenti e di nuova linfa. Ma il rischio è evidente: una città che si trasforma in vetrina, bella da vedere ma sempre più privata, dove i luoghi della storia diventano sfondo per residenze esclusive, e la dimensione pubblica arretra, un tassello dopo l’altro.
Quando gli edifici più rappresentativi passano di mano senza un disegno complessivo, non è solo la pietra che cambia padrone. È il senso di appartenenza collettiva che si dissolve, lentamente ma inesorabilmente.
Immaginare un destino diverso per Palazzo Maurogordato non è difficile. Poteva diventare una sede per mostre e eventi, un centro di ricerca sulla storia cittadina, o anche solo uno spazio condiviso tra pubblico e privato dove restituire ai livornesi un frammento della loro memoria.
Non è utopia, ma visione. Quella che oggi manca non solo a chi governa, ma forse anche a noi cittadini, troppo abituati a considerare normale la perdita del nostro patrimonio.
È tardi ormai per cambiare il destino di Palazzo Maurogordato. Ma non è tardi per interrogarsi su ciò che questa vicenda rappresenta: una Livorno che lascia scivolare via, quasi con indifferenza, le occasioni di rinascita culturale e di coesione civica. Non servono proclami, né nostalgie. Serve tornare a credere che la bellezza condivisa è un bene pubblico, e che certe decisioni – anche quando riguardano singoli edifici – parlano del tipo di città che vogliamo diventare.
Perché se un palazzo storico simbolo del “Lungarno labronico” diventa un condominio, allora davvero Livorno rischia di smarrire la sua anima più autentica: quella di città aperta, generosa e capace di immaginare il futuro guardando alle proprie radici.